Visualizzazione post con etichetta Cinema. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Cinema. Mostra tutti i post

domenica 7 marzo 2010

Operazione Valchiria di Bryan Singer (ma non solo)

"Voi non portaste il peso della vergogna. Avete resistito". E' da ieri che mi frulla in testa questa frase. Ovvero da quando ho finito di vedere "Operazione Valchiria" di Bryan Singer. Il film si conclude proprio con questa epigrafe, scritta sul monumento ai caduti della Resistenza tedesca, a Berlino. Continua così: "Sacrificando la vostra vita per la libertà, per il diritto e per l'onore".

Operazione Valchiria era il nome in codice, utilizzato ai tempi della Germania nazista, per indicare una serie di provvedimenti che avrebbero dovuto essere presi in caso di grave ed improvvisa emergenza nazionale. E quale più grave ed improvvisa crisi di stato, per il Terzo Reich, della morte del suo indiscusso leader Adolf Hitler? Proprio per questo motivo, l'Operazione Valchiria è passata alla storia per essere stata utilizzata come ultima fase di un tentativo di colpo di stato, avvenuto nel luglio del 1944. In quei giorni, un piccolo e sparuto manipolo di eroici cospiratori (uomini politici dell'opposizione, alte classi dell'esercito, componenti dell'amministrazione pubblica), intenzionati a salvare il proprio paese dalla rovina definitiva, organizzarono nei minimi dettagli un attentato alla vita di Hitler. L'attentato, effettivamente, venne portato a termine e, nelle ore immediatamente seguenti, i cospiratori fecero scattare l'Operazione Valchiria, nel tentativo di prendere il controllo della Germania, prima che lo facessero le SS o la Gestapo. Purtroppo, tutti sappiamo che Hitler non venne mai ucciso quel giorno. Si salvò miracolosamente e anche il resto dell'operazione fallì a causa di svariati contrattempi e difficoltà minime. Piccoli dettagli che però, uniti alla codardia e alla conseguente esitazione di parecchie persone che ebbero la possibilità di scegliere se aiutare i cospiratori o mettersi in mezzo, portarono in breve tempo all'arresto di tutti i golpisti e alla loro successiva fucilazione. La storia ci insegna quello che accadde dopo.

Non conoscevo la trama di Operazione Valchiria, quando ho pensato di vederlo. E' stata una bella sorpresa. Soprattutto, come sempre mi accade, la visione del film si è rivelata perfettamente in tema con il periodo. Proprio stamattina, infatti, mi trovavo insieme a pochi altri (purtroppo) di fronte alla Prefettura, per commemorare le vittime della prima strage di stato dell'Italia repubblicana, avvenuta il 7 Marzo del 1947 qui a Messina. Abbiamo deposto un fiore sulla lapide (mai inaugurata volontariamente, come ci è stato confermato da chi ha vissuto quel periodo) e abbiamo letto qualche brano di un libro che racconta l'accaduto. Subito dopo, ci siamo spostati di fronte al cancello della Prefettura, per protestare contro il decreto salva-Polverini, come è stato subito ribattezzato.

E' veramente comico come in questo paese ci siano due/tre assurdità diverse per le quali manifestare ogni giorno. Ma è altrettanto comico, o forse sarebbe meglio dire grottesco, il vedere come, ogni giorno, sempre meno sono le persone che se ne rendono conto. Ma torniamo alla frase iniziale: "Voi non portaste il peso della vergogna. Avete resistito. Sacrificando la vostra vita per la libertà, per il diritto e per l'onore". Ora, è ovvio che nessuno, attualmente, ha la necessità di sacrificare la propria vita per i propri valori. Nonostante si viva in Italia. Ci si dovrebbe chiedere, però, due cose.

Primo: quanto tempo passerà prima di arrivare a quel punto? Oggi Diego mi ha detto: noi, avendo avuto il fascismo, dovremmo avere degli anticorpi pazzeschi. Invece qui sembriamo tutti tanti ingenui bambinetti, pronti a credere alle favole. Vediamo tutto quello che succede e pensiamo sempre che sia una buona ragione per tutto. Prendiamo ad esempio il decreto salva-Polverini. Si è vero, probabilmente delle elezioni nelle quali una delle due parti politiche predominanti è esclusa e, quindi, nelle quali l'altra parte vince praticamente a tavolino, sono un po' una farsa. Ma siamo sicuri che, se il problema si fosse verificato per una lista civica di cittadini liberi esterni ai partiti, il governo sarebbe immediatamente intervenuto con un decreto per riportare la democrazia? Penso di no. Quando un semplice cittadino sbaglia le regole si attuano sempre, mentre se sbaglia un politico o un intero partito, le regole possono anche essere cambiate in corso d'opera. Si chiama potere. E in Italia non ce l'ha il cittadino. Già da tempo. Praticamente da sempre.

Secondo: se non siamo chiamati a donare fisicamente la vita per i nostri diritti, cosa significa, ora come ora, sacrificarsi? Stamattina , parlandone sempre con Diego e con altri, siamo giunti alla conclusione che sacrificarsi significa andare avanti con tutte le proprie forze combattendo per ciò in cui si crede. Probabilmente, nel mio caso, sacrificarsi significa andare ogni giorno in facoltà a lavorare per il mio dottorato sapendo che, essendo io figlio di nessuno e non avendo alcuna raccomandazione, nella migliore delle ipotesi sarò un precario a vita. Forse, nel mio caso, significa andare avanti con il lavoro che facciamo con Energia Messinese, e fare tutto questo senza portare il peso della vergogna, ovvero senza scendere mai a compromessi e cercare strade diverse, più semplici, per poter realizzare quello in cui credo, rischiando però al contempo di snaturarmi e di perdere la mia identità. Ho preso, anche io, la mia decisione.

sabato 20 febbraio 2010

Il Mito sparente

E' sorprendente come, a volte, accadono delle cose che ti rimangono in testa. Ed è ancora più sorprendente come, quando qualcosa ti rimane in testa, subito dopo accade qualcos'altro e poi qualcos'altro ancora e poi ancora, fino a quando non ti formi un'opinione su un concetto. Ecco allora che scatta il post sul blog.

L'altro giorno, eravamo fuori dalla chiesa del Ringo, dopo aver assistito alla celebrazione del Mercoledì delle Ceneri. Classiche frasi: cosa facciamo, dove andiamo, dai facciamo qualcosa! Io e Sandro allora scattiamo insieme nella (per noi assolutamente classica) litania fanciullesca alla Jim Morrison: "Dai! Fondiamo una religione! Dai, dai! Di più, di più!". Federica, che era li accanto a noi, ci ha presi per pazzi. Io me ne sono accorto ma poi la pioggia ci ha impedito di parlarne. La cosa mi è tornata in mente ieri, mentre guardavo questo video sul sito del Fatto Quotidiano:




Vi consiglio di guardarlo direttamente dal sito del MisFatto perché c'è la versione completa. Anzi vi consiglio di guardare anche la sezione dal titolo "Il barzellettiere": semplicemente inquietante.
Comunque....

Stavo dicendo, guardo questo video e mi viene in mente quella situazione davanti al Ringo nonché alcune altre cose che racconterò a breve. Penserete che sono pazzo e che non ho niente da fare (e non ci andreste lontani), però la cosa ha un senso. Il video di Verdone, infatti, parla della decadenza del Mito nella nostra società. Carlo racconta di come, un giorno (fine anni sessanta), gli sia capitato di incontrare per strada Gian Maria Volontè (se non sapete chi è Gian Maria Volontè allora è inutile che continuate a leggere questo post... no scherzo!) e di come si sia avvicinato, rispettosamente e timorosamente, per fargli i complimenti. Subito dopo, fa un parallelo con un episodio in cui la situazione si capovolge: questa volta è lui l'attore famoso che viene avvicinato da un fan. Solo che questa volta il fan è un burino romano che praticamente aggredisce Carlo e lo costringe a telefonare ad un amico per fargli una delle sue classiche voci. Carlo racconta anche di un episodio che vede protagonista Alberto Sordi e fa notare, con un atteggiamento abbastanza auto-ironico, come da Gian Maria Volontè e Alberto Sordi si sia "scesi" a Carlo Verdone nella classifica del Mito.

E allora qui cominciano le associazioni di idee. Intanto ho pensato subito a come, pochi anni di distanza tra me, Sandro e Federica, possa comportare una differenza, a volte anche notevole, nel linguaggio e nei punti di riferimento culturali, magari anche solo nell'ambito del mondo dello spettacolo. Se chiedi a qualcuno della mia età se ha visto il film "The Doors" (o se conosce almeno Jim Morrison) penso che una buona percentuale risponderà di si e avrà presente la scena di cui sopra. Già pochi anni e la percentuale si abbassa. Questo ovviamente, di per se non significa nulla. E' ovvio che, nello scorrere degli anni, i modelli culturali, le icone e (appunto) il Mito si modifichino e si evolvano. Inoltre, a parità di età, tutto dipende anche dall'ambiente culturale in cui si è cresciuti, dalle persone che si è frequentate, dalle esperienze. Non si può essere troppo superficiali. Penso però che una cosa sia innegabile. Il Mito, inteso come modello culturale, come riferimento, come avanguardia, come agente che modifica la realtà e la rende più ricca, non si sta solo modificando. Sta sparendo.

Verdone fa notare come, nella società attuale, la visibilità viene data ai "senza talento". E qui mi viene in mente un'altra cosa su cui ho ragionato un po' di recente: il trailer del film "Genitori & Figli, agitare bene prima dell'uso". Penso che ce l'avrete tutti presente: quel film in cui Andrea Facchinetti, nella parte del figlio, dichiara "Sei milioni di italiani guardano il Grande Fratello! Siamo tutti dei coglioni?" e i suoi genitori, Michele Placido e Margherita Buy, gli rispondono in coro un sonoro "SI!". Al di là della speculazione ricorsiva da parte del mondo dello spettacolo, che è capace di criticarsi e prendersi in giro, solo ed esclusivamente per incrementare ancora di più gli introiti senza alcuna volontà di cambiamento effettiva, sicuramente questa scena fa riflettere. Forse sono io che frequento molte persone che non fanno altro che parlare di Grande Fratello, di Mauro, Veronica e altri che non so assolutamente chi siano, però è innegabile che in Italia negli ultimi anni fra i ragazzi e le ragazza della mia età o più piccoli non ci sia molto di cui parlare se non di quello. Quali altri modelli, quali altri Miti vengono forniti?

Prendiamo ad esempio il festival di San Remo, che ovviamente io sto boicottando e ignorando con tutte le mie forze (non che ci sia bisogno di un grosso impegno). Come tutti sappiamo, Morgan è stato cacciato e gli è stato impedito di partecipare al festival per aver fatto una battuta (sicuramente infelice) sul suo consumo abituale di cocaina. Io lo chiamerei il festival di San Ipocrisia ovviamente ma non è questo il punto. Il punto è che, mentre un cantautore con un innegabile talento (naturalmente non è che Morgan sia un genio ma lo sto prendendo come esempio perchè il caso è noto) è stato escluso dal festival per un motivo opinabile, assolutamente nessuno si è opposto, o sta discutendo (parlo di un'attenta analisi della situazione e non del gossip), sul fatto che Emanuele Filiberto abbia avuto la possibilità di presentarsi sul palco dell'Ariston, insieme a Pupo, come se fosse un vero artista quando invece non è assolutamente nessuno. Tanto è vero che, almeno, hanno avuto la decenza di buttarli fuori subito. (EDIT: O mio Dio, mi hanno appena detto che sono stati ripescati e sono in finale! Che vomito.)

E di questi episodi potrei raccontarne infiniti. La verità purtroppo è che, come dice Verdone, il nostro è un mondo di "senza talento" e in realtà, se ci pensate, la definizione si estende non solo al
mondo dello spettacolo. Prima c'era Moro, De Gasperi, Sturzo, Pasolini, Bobbio, Sciascia, Biagi, De Andrè, Rino Gaetano. Ora chi c'è? Calderoli? Vespa? Emanuele Filiberto? Un altro paio di decenni e non avremo più Miti veri grazie ai quali emozionarci, riflettere, analizzare il mondo e renderlo migliore.

domenica 7 febbraio 2010

Ho solo fatto a pezzi mia moglie di Alfonso Arau

Continua il mio excursus sui film di Woody Allen. Per la verità quest'ultimo è con Woody Allen e non di Woody Allen ma non vi è alcun dubbio sui motivi che hanno spinto il regista newyorkese ad accettare la parte. In "Ho solo fatto a pezzi mia moglie", infatti, c'è tutta la sottile ironia di cui è permeato il suo cinema, con un'unica importante differenza sull'ambientazione: New York non si vede neanche in cartolina e la trama si dipana tra il Texas e il Messico.

Tex (interpretato da Allen) è un macellaio cornificato impunemente e, a dir poco, frequentemente dalla bellissima moglie Candy (Sharon Stone). Tex e Candy sono di New York (naturalmente la città doveva almeno essere nominata) ma sono costretti a vivere in Texas per sfuggire ad un boss malavitoso con cui Candy ha avuto la sua ennesima avventura extraconiugale. Un giorno, stanco di questa situazione, Tex uccide la moglie, la taglia in sette pezzi e la seppellisce vicino allo sperduto villaggio di El Nino, in Messico. Una donna del villaggio, cieca dalla nascita, inciampa nella mano della defunta, sfuggita al seppellimento, e riacquista la vista. Da quel momento la mano di Candy diventerà ironicamente "la mano della Vergine" e il piccolo e sconosciuto villaggio di El Nino si trasformerà in meta di pellegrinaggi e potenziale fonte di business per i suoi abitanti. Sacro e profano si mescoleranno mentre Tex tenterà, ad ogni costo, di recuperare la mano della moglie, cercando nel contempo di non essere arrestato.

Al di là della sottile critica verso la Chiesa e verso la gestione dei luoghi di culto, sempre più spesso centri di affari e speculazione, "Ho solo fatto a pezzi mia moglie" si distingue per la regia ironica e divertente di Alfonso Arau (che si era già fatto conoscere per "Il profumo del mosto selvatico") . Il villaggio di El Nino è dipinto come uno spassoso e teatrale circo di personaggi assurdi e surreali. Non manca nessuno: dal prete del paese, devoto ma incapace di resistere alle tentazioni della carne, al sindaco corrotto e pronto ad approfittare economicamente dell'arrivo della mano, dalla prostituta locale, una siciliana che si guadagna il pane con la maggior parte degli uomini del villaggio, compreso il prete (interpretata da Maria Grazia Cucinotta), allo storpio venditore ambulante, per finire con il cantastorie del villaggio che, con in mano la sua chitarra elettrica, dispensa perle di saggezza a chi è in difficoltà. Termino questa recensione con una delle migliori: "O salvi il culo o salvi l'anima. Tutti e due non li salvi!".

lunedì 25 gennaio 2010

Cineforum "Misteri d'Italia": Pasolini – Un delitto italiano

Ormai in Italia di intellettuali non se ne vede più da tempo. Il mio grande "amico" Olivero Beha aveva cercato di esprimerlo nel suo libro "I nuovi mostri" anche se in realtà si era limitato a raccontare la sua storia personale e a giustificare la sua completa sparizione dalla scena. In ogni caso, il dato resta: in Italia la categoria degli intellettuali è in via di estinzione. Non c'è più nessuno che esprima una opinione vera e sentita su nulla. Non c'è più nessuno che sia in grado di leggere la realtà, spiegarla e criticarla. Non c'è più nessuno che si oppone al potere dell'ignoranza e della superficialità. Non c'è più nessuno che dica semplicemente le cose come stanno. Ecco, Pierpaolo Pasolini probabilmente è stato l'ultimo.

L'associazione Energia Messinese continua nel suo impegno civile sul territorio con gli appuntamenti del cineforum "Misteri d'Italia". L'obiettivo del ciclo di proiezioni è quello di spingere i cittadini della nostra città a informarsi su alcuni degli aspetti poco chiari della storia italiana: delitti che non hanno mai visto la luce della verità, personaggi poco noti ai più ma con ruoli decisivi in momenti storici delicati, episodi coperti da una coltre di nebbia che non lascia intravedere il loro reale significato. Reputiamo che sia dovere di ogni cittadino, per quanto possibile, cercare tutte le informazioni necessarie a formarsi una opinione chiara e precisa su ciò che riguarda la vita pubblica del nostro paese. Insieme alla Rete, il cinema d'autore può essere utile allo scopo. Oltre a essere un piacevole modo di passare le serate.

Mercoledì 27 Gennaio verrà proiettato "Pasolini - Un delitto italiano" di Marco Tullio Giordana, film-inchiesta che dà ampio risalto alla figura di Giuseppe Pelosi, assassino di Pier Paolo Pasolini. Più che un ricordo del regista e scrittore, un’analisi della pista alternativa sul caso Pasolini: non si sarebbe trattato di un delitto passionale tra omosessuali, bensì dell’ultimo atto di un complotto ordito dal potere per eliminare un personaggio scomodo, voce critica nei confronti del governo. Ma anche nel film la questione rimane, ovviamente, irrisolta. Ricostruzione, in forma di “docu-drama” con la mescolanza di immagini “finte” e di materiale di repertorio in bianconero, del processo contro Pino Pelosi per la morte di Pier Paolo Pasolini, ucciso nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 sul lido di Ostia. Giordana e i suoi sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia non pretendono di raccontare la verità su quella morte, ma di spiegare perché quella verità non s’è mai saputa e perché la prima sentenza che condannò Pelosi per omicidio “con il concorso di ignoti” sia stata cassata nelle sentenze successive, rimossa dall’opinione pubblica, dimenticata. Nel film, montato con accorta efficacia da Cecilia Zanuso, di Pasolini si vede il volto, e si ascolta la voce, soltanto nei frammenti di repertorio. Qualcuno gli ha prestato un corpo, ma non il viso, nelle convulse e notturne sequenze dell’omicidio. Si risolve in un atto di accusa contro la putrefazione, l’indegnità, le pesanti responsabilità di una classe dirigente contro la quale in vita Pasolini s’era rivolto nei suoi scritti corsari.

Ricordo che la proiezione avverrà presso il salone della Chiesa di Porto Salvo di fronte all'ingresso laterale della Fiera alle 20.45 circa. Fate attenzione al cambio di orario rispetto alle proiezioni precedenti. Cercheremo in questo modo di dare più spazio al dibattito e contemporaneamente di "non fare troppo tardi". Qui trovate una mappa che indica la posizione corretta del posto. L'ingresso è assolutamente gratuito.

venerdì 22 gennaio 2010

Anything else di Woody Allen

















Per adesso sono intrippato con i film di Woody Allen. L'ultimo che ho visto è Anythig else. Il titolo (che significa "tutto il resto") si riferisce ad una conversazione del protagonista, Jerry Falk (Jason Biggs), un giovane aspirante scrittore di spettacoli comici che naturalmente vive a New York, con il tassista che lo sta accompagnando in aeroporto:

Jerry: La battuta perfetta su Dobel è quella vecchia freddura che anche un orologio fermo due volte al giorno dice l'ora esatta. Dobel era dotato di ironia e avrebbe apprezzato molto che io avessi una, per usare una sua parola, fortuita visione di Amanda lasciando la città andando all'areoporto. Eh il medico... sapevo che il medico era pazzo di lei...
Tassista: Che ha detto?
Jerry: Eh... Uh... Stavo solo dicendo come è strana la vita e quanto è piena di inesplicabile mistero.
Tassista: Beh guardi... è come tutto il resto.

Dobel è un attempato professore di scuola, naturalmente interpretato dallo stesso Allen, con il quale Jarry ha preso l'abitudine di chiacchierare. Durante le loro lunghe passeggiate a Central Park, Dobel istruisce Jerry sulla vita: come affrontare il suo rapporto travagliato con la fidanzata (interpretata da Christina Ricci), come liberarsi del suo agente inetto (un grandioso Danny De Vito), come prendere in mano il proprio futuro e il proprio lavoro.

Ho deciso di iniziare con una citazione dal film non a caso. Anything else infatti è un pentolone pieno di freddure e citazioni che vanno dalla filosofia, al cinema passando per la storia e la politica. Ecco qualche altra battuta geniale:

"Ho litigato con due vigili. Stavano insinuando che Auschwitz fosse solo un Parco a tema."

"Ti masturbi? Io lo preferisco a fare sesso. Ieri sera mi sono messo su una cosetta a tre: io, Marilyn Monroe e Sophia Loren. Credo, tra l'altro, che fosse la prima volta che le due grandi attrici apparissero insieme."


"Secondo te la fisica quantistica ha la risposta? Scusa, ma a che cosa mi può servire che tempo e spazio siano esattamente la stessa cosa? Cioè, chiedo a uno che ora è e lui mi risponde "6 chilometri". Ma che roba è?"

Ma la più geniale è questa:

"Nel corso della vita, Falk, non ci sarà certo penuria di gente che ti dice come vivere, avranno tutte le risposte, cosa dovresti fare, cosa non dovresti fare. Non ci discutere mai, tu di' sempre: «Ah sì? è un'idea davvero brillante» e poi fai come ti pare."

lunedì 18 gennaio 2010

Avatar di James Cameron

Come non andare a vedere l'evento cinematografico dell'anno, l'ennesima prova del visionario James Cameron, il film che fu concepito 15 anni fa ma completato negli ultimi 4 anni perchè la tecnologia non era ancora pronta, il "capolavoro" come lo ha definito Steven Spielberg?
Beh, sono andato a vederlo e sono rimasto affascinato ma al contempo stordito. Il film è sicuramente molto bello ma per capirlo a fondo bisogna studiarlo meglio e più approfonditamente.

Cominciamo con la storia che potrebbe, a prima vista, sembrare banale: la solita guerra senza quartiere tra i gli avidi e spietati conquistatori e gli indigeni che difendono la propria vita e il proprio mondo dall'invasione "aliena". Il solito invasore che impara a conoscere il "nuovo" mondo e diserta decidendo di combattere contro i suoi simili, spinto dall'amore per una giovane indigena. Quante volte lo abbiamo visto? Balla coi lupi, Pocahontas, L'ultimo samurai, ...devo continuare? Questa volta il plot standard viene trasportato in un futuro non troppo lontano: il nuovo mondo da conquistare è il pianeta Pandora, sul quale alcune società private terrestri stanno estraendo un raro materiale, irreperibile sul nostro pianeta, che dovrebbe risolvere definitivamente i problemi energetici in cui l'umanità è caduta, dopo aver completamente distrutto e prosciugato la Terra. Il marine Jake Sully, finito sulla sedia a rotelle durante un'operazione militare, viene inviato sul lontano pianeta per sostituire il fratello morto. L'aria di Pandora è irrespirabile per gli essere umani e per questo è stato creato il progetto Avatar che consiste nella creazione e nell'utilizzo di ibridi umani-alieni pilotati a distanza che possono sopravvivere sul pianeta e che sono del tutto simili nell'aspetto ai nativi del luogo, i Na'vi. Jake è l'unico a poter pilotare l'Avatar del fratello, perché possiede un DNA quasi perfettamente identico. Grazie all'Avatar Jake può camminare nuovamente e durante una delle ricognizioni del pianeta viene salvato da una giovane Na'vi, Neytiri, di cui si innamorerà. Immancabile il lieto fine in cui i cattivi vengono rispediti a casa dopo una battaglia apocalittica mentre Jake deciderà di rimanere nel nuovo mondo ormai in pace.

Se si guarda semplicemente alla storia, quindi, Avatar dovrebbe beccarsi una solenne bocciatura. Sono convinto che un regista bravo come James Cameron non avrebbe mai fatto l'errore di far uscire nelle sale cinematografiche un film già vecchio, soprattutto dopo una colossale campagna pubblicitaria durata anni, puntando semplicemente sull'effetto sorpresa. Bisogna, quindi, guardare più approfonditamente. Non ci si può fermare alla storia banale. Non ci si può, neanche, lasciare ingannare dagli effetti speciali che non sembrano un gran che, se paragonati a quelli di precedenti film 3D, che ti "fanno arrivare gli oggetti di sopra" e quindi sono necessariamente più fighi nell'opinione comune della gente (da questo punto di vista credo, invece, che il film sia molto elegante con un 3D utilizzato molto sapientemente senza esagerazioni). Ci si deve spingere oltre per capire quello che il film vuole trasmettere.

No, non sto assolutamente parlando della metafora morale ed ecologista che chiunque è in grado di vedere dietro il film. Certo questa è sicuramente presente: gli essere umani hanno distrutto la terra, Pandora è un mondo perfetto dove i suoi abitanti vivono in perfetta simbiosi con la natura, gli essere umani non si fermano di fronte a nulla e sono disposti ad uccidere pur di raggiungere il loro scopo, i Na'vi quando uccidono un essere vivente pregano per la sua anima e lo ringrazio per il sostentamento che gli fornirà, e così via, potrei continuare all'infinito.

No, no, c'è qualcosa di più profondo che forse non cade direttamente all'occhio. E' necessario conoscere un po' i dettagli tecnologici che stanno dietro al film per capire anche il suo senso. C'è un parallelo entusiasmante tra la tecnica con cui gli attori hanno dato vita ai personaggi digitali sullo schermo e il progetto Avatar stesso grazie al quali i piloti umani entrano fisicamente in Pandora. All'inizio della lavorazione del film, è stata effettuata una scansione approfondita di tutti i tratti somatici degli attori per riprodurre i loro avatar digitali in maniera perfetta nel minimo dettaglio. Successivamente, durante le riprese, sono state utilizzate delle tute dotate di sensori e telecamere piazzate su tutto il corpo, per registrare ogni minimo movimento del corpo. Anche il viso è stato perfettamente riprodotto, in maniera digitale, e gli attori hanno avuto la possibilità di recitare in piena libertà dato che qualunque espressione facciale avrebbero reputato più adatta alla scena sarebbe stata perfettamente registrata e avrebbe fatto parte del film. In pratica, l'avatar digitale che noi vediamo sullo schermo è la perfetta riproduzione del corpo dell'attore e conseguentemente della sua performance artistica. E così come gli attori hanno dato vita ai loro avatar digitali sullo schermo così, dentro lo schermo, gli esseri umani entrano in link con il proprio avatar Na'vi per andarsene in giro su Pandora. Già questo è un primo livello di dettaglio interessante: chi non ha mai sognato di poter uscire dal proprio corpo per entrare in un corpo più forte, più agile, magari indistruttibile con il quale poter fare quello che si vuole? Anche se questo tema è stato affrontato molte volte (vedi Il Tagliaerbe, Nirvana, lo stesso Matrix e vari altri) esso non è stato mai elaborato a questo livello. Il nuovo corpo non è più esclusivamente virtuale. Il mondo da esplorare non si concretizza esclusivamente nella memoria elettronica di un calcolatore. Non è una gabbia per la mente che non ha sbarre, forma o odore, come in Matrix, ma è qualcosa di reale e tangibile, in cui la mente del navigante può anche definitivamente trasferirsi come vedremo accadere a Jake nella scena finale.

Ma non è finita qui. Sul pianeta Pandora ogni essere vivente è dotato di un mezzo di connessione verso il resto del mondo. I Na'vi ce l'hanno nella coda dei capelli: praticamente è un cavo che li può collegare a qualunque cosa vivente sul pianeta. E quando un Na'vi si collega con un nuovo essere vivente, solitamente per cavalcarlo, (volante o terrestre che sia) i due corpi e le due menti diventano un tutt'uno. Basta che il Na'vi pensi di girare a destra ed ecco che la sua cavalcatura esegue come se lo avesse pensato essa stessa. L'intero pianeta Pandora è un unica rete neurale densamente connessa, in cui anche la morte non è che un passaggio da una forma ad un altra di comunicazione e di simbiosi con il resto dell'ambiente. E allora come non vedere in Avatar una perfetta metafora dei desideri più ancestrali dell'uomo: quello di far parte di un pan, di un tutto (vi dice niente Pan-dora?) e quello di sfuggire definitivamente alla morte e alla separazione dai propri cari?

E allora ecco che un film che è stato superficialmente etichettato come scontato o vecchio o sopravvalutato in realtà sta parlando al cuore più intimo di ognuno di noi. Sta evocando in noi un ricordo che ogni tanto, presi come siamo dalle nostre sopravvalutate vite, perdiamo dentro qualche anfratto di caos. E cosa dovrebbe fare il cinema se non questo?

venerdì 15 gennaio 2010

Io, loro e Lara di Carlo Verdone

Con un po' di ritardo, dovuto al ritorno al lavoro che non mi ha lasciato un attimo di tempo, torno a scrivere. Martedì sono andato a vedere Io, loro e Lara di Carlo Verdone, rigorosamente all'Iris e rigorosamente a 4 euro.
Penso che sia il primo film di Verdone che vado a vedere al cinema. Anzi, ora che ci penso, ne sono quasi sicuro. Ho sempre pensato che non valesse la pena andare a vedere film comici al cinema (tranne per qualche film di Aldo, Giovanni e Giacomo che è capitato di vedere con gli amici). Nell'ultimo periodo, però, ho pensato un po' alla funzione del cinema stesso e mi sono ricreduto. In fondo, cosa c'è di meglio di una sala gremita fino all'inverosimile di gente venuta per fare la stessa cosa per cui sei venuto tu? Il cinema non è solo effetti speciali o scene spettacolari. C'è anche la componente umana, che a volte si trascura. Un cinema pieno di gente che ride all'unisono per la stessa battuta, che parla con il vicino (magari disturbando) commentando l'ultima scena, che si alza, si muove, mangia popcorn, ognuno con la sua voce, con il suo modo di ridere particolare e diverso dagli altri è qualcosa che, se ci pensiamo bene, non capita più spesso. "Sentire" le persone che ci stanno attorno, non è il nostro forte. Il cinema è un'esperienza catartica, nel vero senso del termine, perché ti fa uscire un attimo dalla vita normale per metterti nella condizione di fare qualcosa con un sacco di gente, che magari non conosci, ma che in fondo ti appartiene perché vive con te, nella tua stessa città, nel tuo stesso paese.

E Io, loro e Lara, proprio di questo parla, del nostro paese. E per parlare del nostro paese non si può che parlare della Chiesa. Il protagonista, don Carlo, è un sacerdote missionario che torna a Roma perché crede di aver perso la fede. Come racconta ad un suo amico (che naturalmente non lo ascolta per niente) in Africa era costretto ad essere prete, preside, idraulico, sciamano: in fondo non sa più chi è. Ma, tornato a casa, non trova una situazione migliore: il fratello è un cocainomane operatore di borsa, la sorella è una psicologa separata con una figlia "emo", il padre si è risposato con una immigrata moldava. I figli non vedono la nuova "matrigna" di buon occhio: sono troppo preoccupati che possa rubargli l'eredità. In questo calderone, non c'è nessuno che abbia un attimo di tempo per ascoltare ciò che Carlo ha da dire e, anzi, sarà lui a dover ascoltare tutti, dispensare consigli e cercare di mettere in ordine la situazione. Situazione che si complicherà ancora di più con l'arrivo di Lara.

Io, loro e Lara è un ritratto perfetto della nostra società, formata da persone sole, che pensano al denaro, al lavoro, al sesso, che non hanno un attimo di tempo per parlare e ridere con gli altri. Gente travolta dai suoi stessi vizi, gente che non sa chi è o cosa vuole. C'è tutto nel calderone: immigrati, anziani, drogati, adolescenti alla deriva, avvocati senza scrupoli, prostitute. In tutto questo, Carlo Verdone non si risparmia qualche considerazione sulla Chiesa e sulla vita e la condizione dei sacerdoti. Mi è capitato di risentire tutto quello di cui abbiamo discusso nel gruppo di AC nell'ultimo periodo. Proprio le stesse frasi. Ad esempio il padre di Carlo che gli dice: "Ma tu cosa ne vuoi capire? Non sei mai stato innamorato!". Oppure, Carlo che spiega a sua sorella come in Africa ci vorrebbe più la protezione civile che quella spirituale.

Io, loro e Lara potrebbe sembrare scontato. Il finale è un po' sdolcinato e sicuramente non è un film "serio". Ma come mi è capitato di dire, sempre al gruppo di AC, penso che sia un film molto più serio di tante altre pellicole "serie". In fondo, se ci pensiamo bene, la nostra vita è abbastanza banale. Pensiamo di essere seri, impegnati, divertenti ma in fondo quando ci capita di vedere un film che rappresenta perfettamente il modo in cui viviamo l'aggettivo che ci viene in mente è banale. Forse, allora, per raccontare perfettamente di noi, molto meglio un film comico che mille film "intellettuali", "profondi", "seri", che in fondo, però, raccontano solo il mondo dei sogni.

giovedì 7 gennaio 2010

Cineforum "Misteri d'Italia": Lucky Luciano

L'associazione Energia Messinese continua nel suo impegno civile sul territorio con gli appuntamenti del cineforum "Misteri d'Italia". L'obbiettivo del ciclo di proiezioni è quello di spingere i cittadini della nostra città a informarsi su alcuni degli aspetti poco chiari della storia italiana: delitti che non hanno mai visto la luce della verità, personaggi poco noti ai più ma con ruoli decisivi in momenti storici delicati, episodi coperti da una coltre di nebbia che non lascia intravedere il loro reale significato. Reputiamo che sia dovere di ogni cittadino, per quanto possibile, cercare tutte le informazioni necessarie a formarsi una opinione chiara e precisa su ciò che riguarda la vita pubblica del nostro paese. Insieme alla Rete, il cinema d'autore può essere utile allo scopo. Oltre a essere un piacevole modo di passare le serate.

Mercoledì 13 Gennaio verrà proiettato il film "Lucky Luciano" di Francesco Rosi e con Gian Maria Volontè. Senza entrare troppo nel dettaglio, per non togliere il piacere di vedere il film, basti ricordare che il Time Magazine ha inserito Luciano tra i 20 uomini più influenti del XX secolo. Luciano, inoltre, è una figura importantissima per la storia del nostro paese: si pensa che egli venne rimandato dal governo degli Stati Uniti in Sicilia per coordinare le operazioni della Mafia in vista dello sbarco degli alleati nella nostra isola nel 1945.

Ricordo che la proiezione avverrà presso il salone della Chiesa di Porto Salvo di fronte all'ingresso laterale della Fiera alle 21.30 circa. Qui trovate una mappa che ne indica la posizione corretta. L'ingresso è assolutamente gratuito.

lunedì 4 gennaio 2010

Hollywood ending di Woody Allen

Val Waxman è un regista di Hollywood la cui vita è in totale sfacelo. Sua moglie Ellie lo ha lasciato per i suoi problemi di ipocondria e ora sta con Hal, un produttore ricco, bello e di successo. Il figlio, musicista ribelle e anticonformista, non gli parla da anni: troppe differenze nelle loro espressioni artistiche e nel modo di affrontare la vita. La sua attuale fidanzata è un'attrice incapace, priva di talento e di cervello, con la quale vive solo per colmare il vuoto lasciato dalla moglie e per avere qualcuno che possa prendersi cura delle sue paure e nevrosi. Il lavoro va ancora peggio: è ridotto a girare spot pubblicitari in Canada in mezzo alle renne. Un giorno la ex moglie convince il suo attuale compagno ad affidare a Val un nuovo film su New York. Ma Val non si smentisce e nella paranoia di fallire viene colpito da cecità psicosomatica scatenando una serie di gag esilaranti sul set del nuovo film.

Hollywood ending è geniale perché affronta contemporaneamente due tematiche care al regista: la nevrosi e l'insicurezza dilagante nella società moderna e la crisi artistica di Hollywood. Val è il prototipo dell'uomo moderno: insicuro, ipocondriaco, schiavo di medicinali e psicofarmaci, insoddisfatto, incapace di mantenere il rapporto con la moglie che ama ancora e alla quale non perdona di averlo abbandonato. Ma Allen mette sullo schermo anche l'eterna doppia personalità del cinema hollywoodiano diviso tra la necessità di successo commerciale e la voglia di lasciare spazio ad un cinema d'autore che non sbanchi il box office ma abbia comunque qualcosa di interessante da dire.

Si potrebbe pensare che Hollywood ending sia il film più autobiografico di Woody Allen e non si andrebbe lontani dalla verità. Soprattutto è un arma di vendetta verso l'establishment hollywoodiano che Allen ha sempre snobbato e che non lo ha mai ricambiato con quell'amore che invece il regista riceve in Europa e nel resto del mondo.

Non uno dei migliori film di Allen ma comunque da vedere.

domenica 8 giugno 2008

Gomorra: una sinfonia sulla tristezza


Crudo, drammatico, autenticamente reale. Solo così può essere definito Gomorra il recente film di Matteo Garrone tratto dall'omonimo libro di Roberto Saviano già vincitore del Premio Viareggio come miglior opera prima. Il capolavoro di Garrone segue le fortune del libro e viene premiato a Cannes col Gran Premio della Giuria pur meritando ampiamente secondo il parere di molti il premio come miglior film.
Gomorra è una musica, una sinfonia che intreccia e alterna generi musicali differenti sotto forma di arte cinematografica. Ci sono le melodie spirituali alla Lou Redd, il pesante industrial gotic tipico dei più vecchi Marilyn Manson e pezzi blues moderni alla Ryan Adams, il tutto scandito da una regia sempre attenta ai movimenti di camera e all'estetica delle inquadrature. Non c'è niente di più simile alla tristezza perfetta di Lou Reed che la scena del commiato tra Totò e il suo amico di sempre che si salutano con un bacio dopo essersi promessi di non indugiare nell'uccidersi a vicenda nella guerra tra gli scissionisti e il clan di Don Lauro che impazza a Scampia: una guerra i cui colpi di mitra, di pistola, di kalashnikov rimbombano pesantemente nel cervello dello spettatore ancora più potenti dei colpi di batteria sintetica tipica della musica del reverendo Manson. Sono più un allegro ma malinconico blues alla Ryan Adams i camion pieni di scorie tossiche che, guidati da ragazzini forse inconsapevoli ma sicuramente eccitati per il compito affidatogli, riverseranno il loro pestilenziale contenuto nelle ferite della terra campane, nelle cave che diventeranno il loro segreto nascondiglio: "com'è rovinata questa campagna, tutta piena di fossi" dirà una vecchietta al giovane Roberto donandogli un cesto di pesche putride prima che lui decida di abbandonare quel lavoro che rende anche i frutti della terra immondi e immangiabili.
E salterebbero sicuramente alla mente dello spettatore altri accostamenti musicali da riportare se, man mano che la sinfonia procede, la verità del film non si stagliasse incontrovertibile contro un'orizzonte illuminato dalle luci dell'alba. Quello stesso orizzonte che in una mattina d'estate come tante altre vede la morte di Marco e Ciro, due ragazzi cresciuti nel mito di Tony Montana detto Scarface, freddati dai casalesi perchè avevano osato "avere le palle".
Ed eccola la verità che Garrone ci rivela, eccola in tutta la sua cruda, drammatica, autentica realtà: la Camorra prima fabbrica sogni e poi li uccide, prima genera persone tristi e poi li distrugge, prima produce miseria e poi ti toglie anche quella.

giovedì 13 marzo 2008

Tim Burton's Sweeny Todd

Tim Burton torna con uno dei suoi capolavori. Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Fleet Street è nelle nostre sale cinematografiche ormai da due settimane e sarebbe un peccato lasciarselo sfuggire.


Burton è certamente uno dei pochi registi hollywoodiani veramente creativi e forse l’unico a risultare immediatamente riconoscibile persino ad un occhio poco attento. Anche in quest’ultima prova, sebbene per lui il musical sia una novità, se escludiamo i capolavori in stop-motion Nightmare Before Christmas e La sposa cadavere, la firma del regista è evidente. Soprattutto nei colori della pellicola, che passano dalle varie gradazioni di grigio delle atmosfere nebbiose e putrescenti di una Londra che più gotica non si può, agli sgargianti ed enfatizzati azzurro e verde dei paesaggi sognati dalla superba attrice Helena Carter (compagna del regista) che nel film recita la parte dell’innamoratissima complice del barbiere assassino, interpretato da un bravissimo Johnny Depp.

Memorabile la scena nella quale i due preparano il menù che verrà servito ai tavoli del loro ristorante discutendo sulle proprietà nutritive che le carni delle persone appartenenti alle varie classi sociali di Londra possono presentare: molti degli abitanti del quartiere verranno effettivamente sgozzati sulla poltrona del barbiere in cerca di vendetta e cucinati in un infernale forno sotto forma di succulenti pasticci di carne.

Johnny Depp, che non si aggiudica l’oscar come migliore attore protagonista vinto invece da Daniel Day-Lewis in Il Petroliere, si conferma uomo dell’ottocento per eccellenza e piazza una interpretazione magistrale, come sempre basata sulla sua eccezionale mimica, nella quale armato di rasoi d’argento ricorda immediatamente il pur sempre burtoniano Edward.

Rimpiangendo le musiche di Danny Elfman ci consoliamo con l’oscar degli italiani Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo che ci consentono di sperare che anche il talento italiano possa ogni tanto mostrare qualcosa di veramente apprezzabile.

Insomma, Burton trasforma il granguignolesco musical di Broadway in una delle meravigliose danze alle quali ci ha ormai abituato e nella quale poetici fiumi di sangue, rigorosamente rosso pastello, saranno apprezzati anche dai deboli di stomaco.

Articolo già pubblicato su www.messinanews.com.

mercoledì 12 marzo 2008

Replicanti vivi o morti?


Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di orione; e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tennhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia… è tempo di morire.

Sono le ultime parole di Roy Batty. Gli ultimi pensieri di un replicante, di uno schiavo, di un essere umano che poco prima di morire, a causa di un imperativo scritto nel suo stesso DNA dai suoi creatori, grida in silenzio la disperazione per non essere libero, per essere nato in catene, per essere solo la copia di un altro essere umano.

Sono parole che resteranno nella storia del cinema. I versi del più profetico film di fantascienza mai girato: “Blade Runner”, di Ridley Scott, tratto dal libro “Do the androids dream electronic sheeps?” di P.K. Dick.

Parole affascinanti, evocative, ma in fondo sono solo le parole di un film; niente più che una citazione da scrivere sul proprio blog o da inserire come firma personale su MSN per fare colpo su qualcuno. D’altra parte i replicanti non esistono e certamente quello dipinto in Blade Runner è un futuro che non si realizzerà mai.
Proviamo però a guardarci intorno. Siamo così sicuri che quel futuro non sia già il nostro presente?

Giriamo per le strade a passo svelto, con le auricolari del nostro Ipod alle orecchie, il cellulare ultimo modello appeso al collo, mettendoci in fila per entrare tutti negli stessi locali di tendenza del momento, parlando tutti delle stesse cose e stando sempre bene attenti a nascondere i nostri reali pensieri.

Guardiamo in tivvù le armate che replicano questo nostro Occidente in ogni angolo del mondo.

Ogni giorno ci guardiamo allo specchio ormai convinti dai nostri creatori di non poter fare nulla, anzi, di non voler fare nulla: perchè fa tutto schifo, perchè pensiamo che i nostri sogni non si possono realizzare, che le cose non si possono cambiare, e crediamo che l’unica cosa che ci resta da fare è non pensare, distraendoci con tutto il vacuo che la nostra società in rovina ci offre.
E allora, forse, ci accorgeremo presto che Roy, quanto meno, grida che lui non ci sta. Grida che lui non lo vuole quel destino che altri hanno scelto al suo posto. In fondo, dopo tutto, lui è un replicante libero, un replicante che si ribella, un replicante vivo; noi, forse (?), siamo solo replicanti morti.

Articolo già pubblicato su www.messinanews.com.